N° 24813 - 17/05/2014 18:01 - Stampa - -

DISCUSSIONE DELLA SETTIMANA

Perché le città dovrebbero rimanere caotiche e disordinate

Nel tentativo di emulare i piccoli centri, dove regnano il verde e la tranquillità, le città rischiano di perdere il loro carattere identitario di ‘cuore produttivo e propulsivo’, di cui il caos è l’inevitabile conseguenza.

In un momento come quello attuale in cui alla parola ‘città” viene quasi obbligatoriamente associato un aggettivo che la connoti- smart, tecnologica, innovativa, fra i più diffusi- è giunto forse il momento di riflettere sul significato di città in sé. Il suggerimento arriva da Robert Bevan (nella foto), giornalista esperto in architettura e urbanistica, che sulle pagine del portale online del “The Guardian”, accusa una progressiva perdita di vista dei principi basilari su cui un centro urbano dovrebbe essere fondato.

La città è, e dovrebbe rimanere, viva e caotica

Andando di fatto a confutare la tesi urbanistica esposta poco tempo fa da Kent Larson, ricercatore del MIT, secondo cui per contrastare il fenomeno dell’urbanizzazione e per garantire agli abitanti un alta qualità della vita le città del futuro dovrebbero essere immaginate come piccoli quartieri autonomi, Bevan sostiene invece che non si possano sottrarre ai centri urbani le loro caratteristiche peculiari. Ovvero: caoticità, vivacità, multiculturalità.

L’attuale paradosso: paesi che vogliono essere città (e viceversa)

Nel trend dell’attuale progettazione urbana, Bevan rintraccia un pericoloso paradosso. Mentre i piccoli centri sembrano aspirare al titolo di città e rincorrono questo ‘avanzamento di grado’ aumentando servizi e residenze, le ‘vere’ città guardano di contro con nostalgia ai modelli rurali e alla vita tranquilla di periferia, cercando di riprodurne alcuni elementi, che si traducono però nella pratica in inutili surrogati.

Il pericolo del modello delle ‘garden city’

La necessità di affrontare la questione si è resa ancor più stringente, dichiara il giornalista, dall’annuncio, fatto qualche mese fa dal cancelliere George Osborne, della realizzazione di una garden city a Ebbsfleet, nel Kent, a 38 km da Londra. L’obiettivo é quello di creare un nuovo centro urbano ‘verde’ e al tempo stesso ridurre la crescente domanda di case nella zona piú popolata d’Inghilterra.

Ma cos’è una garden city? Il “garden city movements” è una metodologia sviluppata alla fine dell’800 dall’urbanista Ebenezer Howard che prevede la realizzazione di un sistema di città satelliti immerse nel verde, sufficientemente distanziate per evitare di saldarsi, che si dispongono a corona di una città centrale. Con il duplice obiettivo di salvare la città dal congestionamento e la campagna dall’abbandono.

Modello implementato anche in Italia

Un modello implementato anche in Italia, con esiti più o meno positivi. Citiamo, fra tutti, l’esempio del quartiere Mirafiori a Torino, di quello di Cusano Milanino a Milano e del quartiere Isolotto a Firenze, a cui si aggiungono delle vere e proprie “città nella città”, come il caso di Milano Due a Segrate, Milano 3 a Basiglio, Metanopoli a San Donato Milanese. Bevan è ad ogni modo categorico: il modello è da bandire.

Bisognerebbe tornare al concetto di agorà

Ribadendo come, sopratutto in Gran Bretagna, si sia a lungo disquisito sul concetto di città senza arrivare mai alla precisa definizione di alcuni parametri, il giornalista dichiara che gli unici criteri universalmente validi risalgono al 1907. E stabiliscono che una città debba necessariamente avere: almeno 300 mila abitanti, una distinguibile unità centrale come fulcro di una superficie molto più ampia e un impianto governativo locale.

Ma il concetto, che ultimamente viene troppo spesso dimenticato, sentenzia Bevan, è quello dell’agorà greca, che si riferiva a uno spazio pubblico centrale inteso come luogo di incontro e di libero scambio di idee e merci. La città non può essere considerata uno spazio verde, né una gigantografia di un paesino rurale, perché è e dovrebbe rimanere un centro “vitale” dove nascono le migliori idee, dove si concentra il ‘motore produttivo e propulsivo’ di una nazione. La contropartita, inevitabile, è quella di un ambiente più stressante e disordinato, ma è questo il prezzo da pagare, non vi sono sconti elargibili ai cittadini.

Le città rischiano di perdere la propria identità e di tornare a una mentalità provinciale

E gli urbanisti dovrebbero avere bene in mente questi concetti e non rincorrere il sogno di un eden inattuabile. E pericoloso, perché il rischio è quello della perdita identitaria delle città e il ritorno a una mentalità provinciale.